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Vite Quiescenti

Presentazione di Riccardo Forfori

Quella di Cantarelli è una sfida giocata con sottile ironia. Una ricerca ansiosa, l’illusoria evanescenza delle cattedrali nel deserto che sfuma nella realtà del quotidiano, un confine limitato dal pregiudizio che non offre scampo a mitiche falene o a fenici pronte a rinascere,

dominano queste liriche, con un ritmo serrato e continuo, testimonianze veloci e precise nel definire uno stato d’animo sorretto da fragili certezze.

Alle parole, profuse come un’onda inesorabile

che s’infrange sulle incognite dei sentimenti, fanno da cornice immagini che diffondono la serenità di un paradiso a cui approda il poeta soltanto dopo aver esplorato l’universo umano ed aver espiato le colpe terrestri.

Versi sincopati e palpitanti, figure scandite, turbamenti che riecheggiano le maledizioni del quotidiano e ritraggono tutto, tranne la quiescenza, sono il soffio vitale di chi non s’accontenta di sentire la sacralità della vita ma è determinato a comprenderne le molteplici sfumature.

Cantarelli, infatti, non abbraccia verità rivelate e non si lascia prendere dai facili entusiasmi: una vena di malinconica tristezza attraversa tutti gli scritti e ci accompagna in questa lettura; una sorta di rimpianto continuo asseconda la genesi di queste liriche che, seppur istantanee e definite dalla lucida precisione del rammarico, si prestano ad una interpretazione più articolata, sul piano formale e concettuale.

Va rilevata innanzitutto la musicalità dell’opera stessa, quasi un concerto sinfonico contro rabbie e umiliazioni, l’esplosione di un sentimento reclamato a gran voce (anche quando queste voci paiono sgraziate, friniscono e la folla cicaleggia) e sottolineato dai continui richiami all’immaginario collettivo cui fanno da eco tetri presagi dettati dall’ombra, dal buio, dalla sera.

Note scandite che il poeta-musicista, direttore d’orchestra, esecutore d’armonia, assembla nella sua creazione, a tratti sofferta.

Montale, parlando proprio delle origini della poesia, in occasione del discorso tenuto presso l’Accademia di Svezia, quando nel 1975 gli venne conferito il Nobel, tornava ad evidenziare quel legame indissolubile che unisce la musica al verso, rilevando, col tempo, tutta la disarmonia che ha segnato il distacco incommensurabile tra musica e poesia e, ancor più drammaticamente, tra poesia e realtà.

Questi aspetti, nell’opera, sono propedeutici alla definizione di un percorso ansioso e segnano un dissidio interiore che sembra mai venire meno.

Cantarelli ci riporta, dunque, a quell’universo melodico e lontano, scandito da ritmi musicali insiti nella primitiva produzione lirica, ed evidenzia tutte le conseguenze ingenerate dalla mancata presenza della poesia nella vita stessa, avvertendo la necessità, quando il recupero dell’arcano legame sembra ormai irraggiungibile, di un rinnovato impegno nel trovare una credibile soluzione: la forza per guardare al futuro attraverso la fragilità delle nostre incertezze.

Speranze sublimi si levano come alti aquiloni, attese e vocazioni restano punti illuminati in mezzo agli oceani dove si scarcerano le gioie e si posano sulle ragioni.

Il senso di queste liriche sembra racchiuso tutto qui: nella speranza di una rinascita dopo una catarsi che si sconta vivendo nel quotidiano.

Artifici retorici, incoscienti giochi di parole, frasi nominali, elissi del verbo, allitterazioni, anafore, analogie, l’utilizzo di rime, richiami classicheggianti che esulano dai formalismi di maniera, consentono, attraverso una forma sempre scorrevole e mai appesantita, quella accelerazione del verso e della parola che è struttura portante all’opera tutta e testimone inquieto di ansia e disperazione. Quell’ansia e quella disperazione sempre ricercate e frutto di improbabili, quanto auspicabili, aneliti verso l’eterno.

Dopo una difficile marcia nel deserto delle solitudini, dove odori acri, mescolati al sangue non bastano a fermare la corsa, si profila nell’orizzonte del poeta una strada che sembra guidare verso due perfettibili direzioni: quella, appunto, delle vite quiescenti e quella più sofferta e meglio definita, abbracciata dal musico compositore di versi, fatta – ci dice – di sputo e sudore.

La spada di Damocle che pende sul nostro capo e ci dà atto d’una misera esistenza, corollario d’ansie e cauti silenzi, si estrinseca in una provvisorietà dell’essenza umana che descrive e lascia intravedere miriadi di soluzioni possibili. Soluzioni mai scontate, anticipate da laconiche chiose, ceselli preziosi protesi in un teatro di più ampie azioni; dettate col fine ultimo di definire un quadro d’insieme, di per sé indefinibile, nel quale il verso resta la manifestazione tangibile del tormentato animo del poeta in cerca delle sue poco probabili certezze.

Nascosta in un forziere all’apparenza impenetrabile, come un cuore che pulsa, s’intravede un’unica licenza nella penna di chi scrive, lo speranzoso osservatore del reale, l’ultimo censore di esistenze asservite e sentimenti vilipesi, il cantore di sicure ma necessarie sconfitte.

È l’ansante spasimo contro quella naturale quiescenza che suole ammorbare l’anima, determinare il limite, assecondare le angosce. È l’impresa del funambolo, proteso tra l’inquietudine e l’emozione effimera. È la sintesi dell’opera di Cantarelli.

Riccardo Forfori

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